• CATALOGO
  • LIBRI
  • CODICI
  • RIVISTE
  • SERVIZI ON LINE
  • ELEARNING
  • EBOOK
  • APP
  • BANCHE DATI
  • SCUOLA DI FORMAZIONE
  • SOFTWARE
 

Il Blog di Dragan Bosnjak

  • Home
  • Profilo
  • Contatti
  • Archivio
Postilla » Impresa » Il Blog di Dragan Bosnjak » Management » Chi va via, chi chiude…

28 luglio 2010

Chi va via, chi chiude…

Tweet

Probabilmente questo articolo provocherà qualche commento anche pesante, ma voglio comunque farlo.

Parlo delle aziende che scappano dalle loro responsabilità sociali e imprenditoriali (e etiche) in Italia per andare a dislocare nei paesi dove la manodopera costa meno, oppure le aziende che chiudono completamente la loro attività perché in Italia non hanno trovato le condizioni per ottenere profitto.

Tra gli ultimi esempi troviamo la OMSA, famosa produttrice delle calze, che sposta uno dei suoi stabilimenti produttivi dall’Italia verso Serbia, lasciando a casa 350 operaie. Oppure la FIAT, anch’essa apre la produzione in Serbia chiudendo in Italia. Poi ci sono altre tantissime aziende che chiudono e di cui nessuno mai sentirà parlare.

Perché la Serbia in entrambi i casi?

Perché è brava a sfruttare i regolamenti CE cui non è sottoposta non facendone parte, in quanto lo Stato dà i sussidi alle aziende per venire sul suo territorio e produrre lì, cosa vietata dalle leggi della CE (per favorire il libero scambio).

Questa situazione può essere sfruttata adesso e poi – probabilmente – mai più, e sono abili a farlo. Perché pensano che dopo, una volta che saranno costretti ad uniformarsi ai regolamenti europei, le aziende saranno già funzionanti sul suo suolo e daranno da mangiare alle loro persone esenza andar via.

Quindi onore al loro Governo a fornire queste condizioni, anche se a breve termine, sfruttando le falle nei regolamenti, ai quali non sono sottoposti per il momento.

Lasciamo però perdere la Serbia. Torniamo in Italia.

Parlo prima delle aziende che chiudono definitivamente. Queste aziende, quando sono state aperte, avevano un loro motivo di esistere, facevano profitto per i loro proprietari e davano qualche prodotto/servizio ai loro clienti. Poi, col tempo, questo profitto è andato a scomparire, a causa della concorrenza, del cambiamento delle condizioni del mercato, dei regolamenti e delle leggi assurde italiane, o per altri motivi non citati dagli imprenditori negli atti di chiusura.

Ma queste non sono le vere cause del fallimento. Le vere cause possono essere cercate nell’incapacità del nostro piccolo/medio/grande imprenditore a gestire l’azienda, a gestire la complessità, a gestire le relazioni con i clienti interni (personale) ed esterni. A collegare i flussi aziendali nelle entità comunicanti, vive, collaboranti, che osservano, ascoltano, sperimentano, si adattano. Che cambiano e migliorano continuamente.

Poi, una volta che capiscono che non c’è più niente da fare, che non erano in grado di gestire le loro organizzazioni, gli imprenditori fanno l’unica cosa logica per loro in quel momento: chiudere. Imparado poco o nulla dalla sconfitta… Perché l’unica cosa che per loro contava erano i soldi, i profitti a breve termine. Una volta cessati quelli, che senso ha andare avanti, giusto?

Una buona organizzazione è quella che ha il suo scopo, la sua visione, che coinvolge il suo personale nell’inseguimento di questa visione. E questa visione non è creare profitto e soldi. Ma soddisfare il cliente. Creare la comunità indipendente che diffonde la loro visione. Creare un ambiente di lavoro dove viene incitata la creatività delle persone per dare al cliente esterno anche quello che non si aspetta. Anche a scapito del profitto a breve termine.

Quindi, imparate questa piccola lezione e, se in futuro deciderete di riaprire, tenetela a mente. Adattamento dinamico e continuo al mercato è molto più importante dell’avere oggi il prodotto che lo conquista completamente creando un profitto immediato. Se volete vivere a lungo, dovete imparare continuamente e adattarvi giorno dopo giorno, crescendo le vostre persone che rappresentano il vostro bene più prezioso.

Adesso è il turno delle aziende che dislocano.
Per queste non ci sono scuse. Ho già parlato in questo blog di quello che penso dell’outsourcing e resto con la mia opinione. Ha senso solo se tu hai un mercato là dove ti sposti per soddisfare le capacità dello stabilimento che stai aprendo. Se invece sposti la produzione e poi importi il prodotto finito su un altro mercato, il gioco non vale la candela: non sei responsivo al tuo cliente, hai scorte esagerate, sei lento, non sei snello. Semplicemente, non ha senso. Anche se la manodopera ti costa 2€ al giorno. Non ha senso.

Qual è il problema di cui vorrei parlare? Tutte queste aziende, che chiudono o si spostano, mandano il personale in Cassa Integrazione. Chi paga questa? A parafrasare la famosa pubblicità: “Make an educated guess”. Provate a indovinare. Sì, siamo noi che lavoriamo, dalle nostre tasche. Non la Serbia. Non l’imprenditore. Noi. Questo è l’assurdo.

Posso essere d’accordo di pagare la Cassa Integrazione per gli operai delle aziende che chiudono definitivamente. Vorrei fare un pò di lavaggio di cervello ai loro imprenditori per come l’hanno condotto, ma comunque pago.

Ma di sicuro non posso essere d’accordo con il pagare la Cassa Integrazione per le aziende che si spostano. Questo no. Perché devo pagare per la scelta assurda di qualche magnate di spostare la produzione, chiudendo in Italia, in un altro paese, per inseguire il minor costo della manodopera e condizioni di lavoro peggiori? Causate pure dalla sua incapacità di gestire qui…

Lo Stato dovrebbe costringere queste aziende e imprenditori a prendersi carico loro di queste spese. Perché è una loro precisa scelta di spostare e non produrre più qui, lasciando le persone a casa. Non erano costretti dal mercato o dalla mancanza di fondi.

Eh sì, lo Stato. L’avessimo…

Letture: 7504 | Commenti: 17 |
Tweet

17 Commenti a “Chi va via, chi chiude…”

  1. Alessandro Bordin scrive:
    Scritto il 29-7-2010 alle ore 12:47

    Bravo e coraggioso! Hai il mio completo assenso.
    Una splendida “lectio magistralis” di economia e di organizzazione aziendale che accademici che si considerano “grandi” (tra cui miei colleghi) non sono in grado di fare perché non ne sono all’altezza.
    Hai detto cose reali e che devono (anche me) far riflettere, ma con grande passione ed umiltà.
    Non aggiungo nulla dal punto di vista tecnico perché l’esame fatto è obiettivo e reale. Chi non l’ammette (fra cui i nostri politici) sa solo mettere la testa sotto la sabbia di fronte a problemi emergenti, senza trovare la soluzione.

  2. gabriella scrive:
    Scritto il 29-7-2010 alle ore 13:56

    Buongiorno, anch’io sono perfettamente d’accordo su quanto esposto da Dragan e vorrei portare un contributo frutto della mia esperienza lavorativa. L’azienda per cui lavoro ha “esternalizzato” un importante lavoro che veniva fatto da miei colleghi interni in questo modo: ha mandato in un paese estero (che per il momento non menziono) i nostri professionisti dicendo loro che avrebbero dovuto insegnare il nostro lavoro a dei “futuri” colleghi stranieri. Al loro ritorno, dopo alcuni mesi, il nostro servizio è stato chiuso ed i colleghi messi in mobilità. La motivazione addotta dalla direzione è stata questa: il costo del nostro servizio era troppo alto da sostenere rispetto al costo che avrebbe fornito il paese estero pertanto, a parità di qualità, sarebbe stato chiuso. Questa è stata la loro scelta, ovviamente unilaterale!
    Ora mi chiedo, e chiedo a tutti coloro che intendono partecipare a questo splendido blog: cosa posso fare per frenare questa valanga di fango che lentamente ma inesorabilmente sta sommergendo la nostra azienda? Grazie.

  3. Dragan Bosnjak scrive:
    Scritto il 29-7-2010 alle ore 14:21

    Grazie a entrambi per non avermi massacrato come mi aspettavo dai commenti… Certamente ne arriveranno altri, diversi…
    @gabriella: in bocca al lupo per fermare la valanga… ti servirà…
    La miopia dei nostri imprenditori (e anche politici) spesso non ha limiti…

  4. mirnix dirnix scrive:
    Scritto il 29-7-2010 alle ore 14:25

    …e questi pensano che in futuro potranno vendere ancora a noi la loro merce che verrà prodotta altrove, dove non hanno le conoscenze techniche specifiche che da in Italia sono maturate in lunghi anni di esperienza pratica. A qualcuno la venderanno, magari per i prezzi lievemente inferiori di adesso, ma i prodotti non sono più gli stessi di una volta. Ed attenzione: chi alza il sedere, spesso perde il posto ;-)

  5. Andrea Asnaghi scrive:
    Scritto il 29-7-2010 alle ore 20:39

    Caro Dragan,
    una opinione in (affettuosa) controtendenza.

    Ciò che scrivi è sicuramente condivisibile, ma in un’ottica come la tua che, spero di non offendere, vuole essere olistica ed ecologica (in senso sociale), ti limiti a prendere in considerazione solo alcuni dei fattori in gioco (per quano reali):
    la scarsa imprenditorialità di alcuni
    la scarsa responsabilità sociale di alcune imprese
    l’inefficacia dello Stato ed enti locali (in alcune occasioni).

    Vi sono tuttavia anche (non poche )esperienze positive in tal senso.
    E vi sono diversi altri fattori in gioco che rendono scarso l’appel italiano e poco praticabili i nostri lidi.
    Forse mi fa parlare la stanchezza di provenire da parecchie riunioni di relazioni sindacali dove si parla del sesso degli angeli (anzi , magari si parlasse di quello ! vuoi che ti parli dello sciopero di un centinaio di persone perchè il colore delle maglie di lavoro non è di loro gradimento ?).

    Ovvio, quando si solleva un problema non si può parlare di tutto e tu hai focalizzato dei punti.
    Ma proprio la tua impostazione olistica dovrebbe portarti a riconoscere che i fattori non si creano da soli e non si cambiano da soli: forse c’è uno sforzo culturale comune da fare per approcciare TUTTI, e da molteplici parti, in maniera diversa il lavoro ed il sociale, sforzo che coinvolge altri soggetti ed altre realtà oltre a quelli che tiri in ballo tu.

    PS la cassa integrazione è pagata dalle aziende che han creato anche ricchezza e benessere intorno a loro – per come han potuto. con i loro limiti da cui si può anche cercare di affrancarle senza partire con una colpevolizzazione – ed è stata spesso abusata per coprire situazioni al limite dello scandaloso ( e ci sono aziende che sono attive da trent’anni e fino alla crisi attuale la cassa nemmeno sapevano che esistesse).

    Che cattivoni quelli che delocalizzano…ma che brutto pensare a come sia difficile oggi pensare da noi che per fare un tavolo ci vuole … un albero (come cantava Sergio Endrigo) ed un falegname e non 20 commissioni interne, 10 consulenti vari, 15 burocrati etc etc

    un caro saluto

  6. Dragan Bosnjak scrive:
    Scritto il 31-7-2010 alle ore 00:07

    Ciao Andrea, bentornato!
    Sono d’accordo con te, ci sono molti esempi di imprenditorialità in Italia da far vedere come esempio positivo di come vengono gestite le aziende, chiaro che non tutto è perso come l’ho dipinto io… E onore a questi bravi imprenditori che, nonostante gli assurdi burocratici che devono soddisfare tutti i giorni per restare aperti, lo fanno con passione e volontà di fare.
    C’è chiaramente anche l’altro lato della medaglia che, come sottolinei giustamente tu, è quello dei sindacati che spesso e volentieri mettono i bastoni fra le ruote agli imprenditori anche per le cavolate indicibili, spesso sapendo di essere intoccabili.
    Magari negli altri paesi questi ostacoli non ci sono o sono meno enfattizzati, ma a me piace vedere le aziende nelle quali i sindacati lavorano insieme all’imprenditore nel miglioramento continuo della qualità di vita dell’azienda, e non solo per protestare contro qualsiasi decisione dell’imprenditore… I sindacati nelle aziende che funzionano o non ci sono o non rompono le scatole ma collaborano. Non ha senso (tranne proprio nei casi estremi di volontà di rompere le scatole…) protestare quando si sta bene.
    Per questo dico agli imprenditori che quello dove dovrebbero andare è verso la creazione delle condizioni di lavoro dove la persona è coinvolta, rispettata la sua opinione e le sue idee, e così non andrà sicuramente a lamentarsi.
    Di queste aziende in Italia purtroppo ne esistono poche. E quelle che ci sono non ci pensano neanche per un istante di andare all’estero, nonostante tutti i problemi burocratici e le spese assurde che possono avere… Sanno comunque che, anche se andassero via, la cosa più difficile sarebbe ricostruire la cultura dell’organizzazione e miglioramento nelle persone, il loro vero vantaggio sul mercato… E questa cultura non si costruisce in pochi giorni o pochi anni, ci vogliono decenni e visione a lunghissimo termine.

  7. franco scrive:
    Scritto il 1-8-2010 alle ore 20:25

    I pagamenti da parte delle Pubbliche Amministrazioni,devono essere veloci;più gira il danaro più stanno bene tutti.Il costo del lavoro(o meglio la contribuzione INPS,deve essere abbassata)altrimenti il lavoro nero continuerà ad esserci e le Aziende regolari non riescono più ad essere competitive.Una FIAT non deve andare all’estero,si deve produrre in Italia e si devono cacciare via gli scansafatiche,altro che invocare la Cassa Integrazione !!!!!!Poi lo Stauto dei Lavoratori,detta anche L.300/1970,fa una discriminazione tra Ditte oltre i 16 dipendenti e quelle inferiori.Possibile che la Corte Costituzionale,non si è mai accorta ? Nessuno ha avanzato tesi di incostituzionalità ? Franco

  8. Giampaolo Fanini scrive:
    Scritto il 3-8-2010 alle ore 08:21

    Concordo pienamente su quanto ha scritto. Io forse non sono stato bravissimo nell’organizzare la mia piccola azienda. Certo è che che qualche volta i problemi sovrastano. E al principio di molti ci sono cecità e stupidità.
    Complimenti.

  9. Raffaello Lupi scrive:
    Scritto il 4-8-2010 alle ore 10:22

    Dragan, non dobbiamo pensare alle aziende come se fossero “degli omoni”, cioè non dobbiamo trasferire sulle aziende le categorie logiche con cui spieghiamo i comportamenti degli uomini, degli amici, dei colleghi, dei figli o delle fidanzate. Le aziende camminano sulle gambe degli uomini, sono gruppi sociali e strumenti di corganizzazione del gruppo sociale, con cui si confrontano, appunto “sul mercato”. Le aziende sono la nuova forma di organizzazione privata della convivenza sociale, che interagisce con l’organizzazione pubblica. Sono perfettamente d’accordo con te che, con la crescita dell’azienda, il profitto a breve diventa secondario, e conta di più il controllo della quota di mercato, l’integrazione con l’ambiente sociale, la ricerca. Il fatturato prende il posto dell’utile, e molti preferiscono fatturato addizionale, anche con utile marginale zero. Perchè così ci si fa conoscere, si controllano i mercati, si remunerano i dipendenti, si accresce al nostra sfera di influenza sociale. Però sono ragionamenti che si fanno quando l’impresa è cresciuta, e che sono impopolari nel nostro capitalismo familiare, dove l’imprenditore non solo vuole profitto, ma vuole anche mantenere il controllo (crescere si, ma solo finchè io posso controllare), senza delegare funzioni vitali. Quindi è normale che se qualcuno produce in Cina a costi minori e ci fa concorrenza, l’azienda chiuda in Italia e riapra da qualche altra parte. Per tenere le aziende in Italia ci vorrebbe una conoscenza della loro funzione sociale da parte dell’opinione pubblica e della burocrazia. Mentre la formazione culturale di massa sulle aziende è ferma agli opposti estremismi delle lodi e delle denigrazioni. Dragan, lo stato è lo specchio dell’opinione pubblica e delle sue categorie di ragionamento. Comunque che deve dire uno che chiude una impresa in Italia? E’ stato bello finchè è durato, ma nessuno aveva promesso che sarebbe stato per sempre…Al limite possiamo fargli restituire aiuti pubblici ricevuti in passato. Ma per il resto che ti puoi inventare?

  10. Bartolo scrive:
    Scritto il 5-8-2010 alle ore 12:48

    Sarò un pò presuntuoso ma vicende analoghe venivano descritte quando per ridare slancio alla competività del ns Paese si pilota la svalutazione della lira sollevando le ire dei paesi comunitari. Oltrettutto il prezzo che si pagava era il deprezzamento del mercato interno. Quindi non mi stupisce che Paesi come la Serbia approfittino delle occasioni che la Comunità Europea offre. (Noi italiani abbiamo fatto di peggio)Sarà svalutata ma serve ETICA (come precisamente scrive Raffaello Lupi) che al ns amato Paese difetta. Vedo tempi amari soprattutto come soluzione si prospetta…il federalismo fiscale… con il reale rischio di doverci dividere (proprio come è successo in Serbia in Croazia in Bosnia ecc. ecc..)
    Bartolo

  11. dott. alessandro govoni scrive:
    Scritto il 19-8-2010 alle ore 16:35

    ALLEGO LA LETTERA RACCOMANDATA inviata AL MINISTRO CALDEROLI. Ha colto il punto. Dott. Alessandro Govoni

    via Castelletti 2
    26037 San Giovanni in Croce (CR)

    &&&&&
    Spett.le
    MINISTERO PER LA SEMPLIFICAZIONE NORMATIVA Alla C.A.

    Ministro Senatore
    Vice Presidente del Senato
    Dott. Roberto Calderoli

    San Giovanni in Croce, 19 Agosto 2010

    lettera raccomandata a.r.

    Buongiorno Ministro Calderoli.
    Mi permetto di contattarla nuovamente certo che solamente da Voi potrà venire una concreta e pronta risoluzione al problema.
    Le avevo già trasmesso la lettera raccomandata a.r. già inviata al Ministero dell’Economia e delle Finanze alla cortese attenzione del Ministro Dott. Giulio Tremonti , ma l’unico provvedimento emanato , la legge sul Made in Italy col 50 % della produzione che deve essere fatta in Italia per poter apporre l’etichetta tessuta made in Italy, risolve minimamente il problema , che invece DEVE ESSERE NECESSARIAMENTE STRONCATO IN PARTENZA e mi permetto di dirle, NELLA SOSTANZA NEL SEGUENTE MODO:

    “CHI LASCIA A CASA UN OPERAIO IN ITALIA NON PUO’ PIU’ ANDARE A PRODURRE ALL’ ESTERO PER I PROSSIMI 5 ANNI, LUI ED IL SUO NUCLEO FAMIGLIARE STRETTO (MOGLIE , FIGLI E GENITORI)” perchè se uno vuole andare a produrre all’estero per il mercato locale o per il mercato globale è liberissimo di farlo, MA NON PUO’ PIU’ ESPORTARE VERSO L’ITALIA PER 5 ANNI perchè non siamo tutti FESSI e LUI ED IL SUO NUCLEO FAMIGLIARE STRETTO SONO GLI UNICI FURBI.

    LA PREGO PERCHE’ ai drammatici risultati attuali di crisi economica delle famiglie , SI PUO’ RISPONDERE SOLO CON DRASTICI RIMEDI e senza girarci tanto intorno.
    Infatti, converrà con me ed è ormai abbastanza palese a tutti, che la crisi attuale è strutturale quindi irreversibile se non viene risolta subito ed all’inizio del sorgere del problema, come sopra suggerito.
    E SONO CENTINAIA DI MIGLIAIA gli imprenditori italiani, industriali medi e grandi, che da 20 anni producono all’estero e sono LORO gli UNICI artefici della crisi attuale ed è ora di dire basta a questa gente perche è troppo, troppo comodo arrichirisi in questo modo a scapito di chi ha a fatica INVECE a continuato a produrre in Italia.
    Non dimentichiamo infatti le CONSEGUENZE DEVASTANTI che provocano ed hanno provocato questi pesudo- imprenditori che LASCIANO GLI OPERAI A CASA PER ANDARE A PRODURRE ALL’ESTERO. Oltre all’aspetto dello sfruttamento della mano d’opera all’estero che in realtà poco ci tocca sul vivo se non da un certo punto di vista morale, è l’aspetto pratico quotidiano che ha ripercussioni sulla vita di ciascun di noi in Italia. Infatti andando a produrre all’estero questa imprenditori con la i sotto terra sistematicamente :
    -creano disoccupazione in Italia , quindi
    fanno aggravare il peso degli oneri sociali a carico dello Stato Italiano e quindi, fanno aumentare le tasse a carico di chi resta.
    La disoccupazione che hanno generato, inoltre fa diminuire il potere d’acquisto della base operaia in genere, che attualmente rappresenta il ceto medio quindi questi imprenditori sono anche l’UNICA causa della dimuniuzione dei consumi interni.
    INOLTRE , quando reimportano in Italia a 1/10 del costo di un analogo prodotto fatto in Italia ,mettono sul lastrico le imprese che invece, a fatica, hanno DURAMENTE continuato a produrre in Italia, creando nuova ed aggiunta disoccupazione, che si aggiunge a quella che avevano già creato quando avevano lasciato gli operai a casa.
    MA POI, LO SMACCO PIU’ GRANDE E’ ALLO STATO ITALIAN: producendo all’estero, riescono ad eludere totalmente il fisco col meccanismo della SOVRAFATTURAZIONE (un bene prodotto all’estero a 10 euro, sapendo che verrà venduto in Italia a 100 euro, viene fatto transitare contabilmente su una consociata estera che lo fattura a quella italiana a 99 euro in modo che in Italia verrà dichiarato solo 1 euro di utile , 100-99= 1 euro, anziché 89 euro di utile , ma la società italiana, INCREDIBILE, non pagherà le tasse nemmeno su quell’euro di utile perchè una finanziaria estera presterà i soldi , i 99 euro pagati alla consociata estera dalla società italiana , che scaricherà gli interessi passivi anche sul misero euro che poteva dichiarare= ELUSIONE TOTALE DEL FISCO=ZERO TASSE PAGATE IN ITALIA .
    E’ scandaloso che un industriale italiano sia riuscito a nascondere in Linchestein l’equivalente di 4 finanziarie .

    Credo che convenga con me che tutto quanto sopra sia PIU’ CHE sufficiente per DIRE BASTA A QUESTI COGLIONI.

    A Sua completa disposizione, colgo l’occasione per porgerLe

    i mie più Cordiali Saluti ed Auguri di Buon Lavoro.

    Dott. Alessandro Govoni

    &&&&&

    Dott. Alessandro Govoni cod. fisc. GVNLSN65D27D869F

  12. dott. alessandro govoni scrive:
    Scritto il 19-8-2010 alle ore 17:34

    Buongiorno, non sapendo che il commento venisse pubblicato in automatico sul suo blog le chiedo gentilmente di togliere l’INTRODUZIONE alla lettera inviata al Ministro in quanto si fa riferimento a nomi che non compete al sottoscritto rendere pubblici.
    Grazie
    Dott. Alessandro Govoni

  13. Dragan Bosnjak scrive:
    Scritto il 19-8-2010 alle ore 19:33

    Salve e grazie per la sua testimonianza. Purtroppo non ho la possibilità personalmente di modificare i commenti, ma mi rivolgerò alla redazione di Postilla che sono i moderatori in questo caso.
    Sono pienamente d’accordo con quello che ha scritto, il che rappresenta la realtà (purtroppo triste…) nel nostro paese.
    Riguardo al riferimento ai C……. finale nella sua lettera al Ministro, direi che non sia quella la definizione giusta per gli imprenditori – loro infatti sfruttano quello che gli viene offerto, dall’alto in questo caso…
    Riguardo invece al riferimento di 5 anni, direi che quelli sono troppo pochi, 10 sarebbe più appropriato, 20 ancora meglio…

    Grazie comunque per la testimonianza e cordialissimi saluti.

  14. Francesca scrive:
    Scritto il 25-8-2010 alle ore 15:55

    Ho 50 anni, vivo a Parma, figlia di due operai, laureata in economia, sposata e madre di due figli.
    Se parlate con tutti gli imprenditori (ma anche con dei lavoratori) vi diranno <>.
    Generazioni di giovani sono state distrutte / annullate da 50 anni di cultura di sinistra, di cultura dei diritti.
    L’articolo 18 dello statuto dei lavoratori ha minato alla base la competitività delle aziende italiane; i lavoratori sanno che, in caso di contenzioso tra loro e l’imprenditore, ci sarà sempre un giudice del lavoro (di Magistratura Democratica) che gli darà ragione.
    L’imprenditore non sa se la prossima settimana ci sarà ancora e i lavoratori devono avere il posto garantito a vita ! ! La maggior parte dei paesi industriali non ha una norma come questa.
    Ma non parlo solo del diritto dell’imprenditore di licenziare ma di tanti altri aspetti; se un lavoratore – giocando a tennis – si procura una tendinite al gomito viene spinto dai patronati sindacali a richiedere il riconoscimento di una malattia professionale e troverà sicuramente un giudice del lavoro di Magistratura Democratica che glielo concederà (esperienza vissuta).
    Il sindacato è diventato un’associazione (censura) per la difesa di una parte dei lavoratori, i fannulloni.
    Ovviamente gli imprenditori italiani che se lo possono permettere scappano all’estero e nessuna azienda multinazionale vuole investire da noi. Hanno tutta la mia comprensione. Ma dove lavoreranno i ns. figli ??

  15. Francesca scrive:
    Scritto il 25-8-2010 alle ore 15:57

    scusate ma è stato tagliato e non si capisce =
    Se parlate con tutti gli imprenditori (ma anche con dei lavoratori) vi diranno: 20 anni fa entravano 10 giovani, 9 erano bravi e 1 no; adesso entrano 20 ragazzi 1 è bravo e 19 no.

  16. mirnix dirnix scrive:
    Scritto il 25-8-2010 alle ore 16:51

    @ Francesca:
    30 anni fa, quando una diventava maggiorenne, poteva già farsi rispettare, era considerato e trattato come persona adulta e se era bravo, gli si aprivano tante porte.
    Oggi i c.d. “giovani” arrivano a 35 – 40 anni e vengono ancora considerati dei ragazzi.
    A volte sembre che quelli più anziani, che hanno avuto la sola fortuna di arrivare qualche anno prima, fanno sentire i giovani come dei ragazzini ai quali piacerebbe entrare in campo a giocare a pallone con quelli più grandi:
    – Gli danno da capire subito che non gli faranno entrare in campo, perchè il campo e occupato da loro;
    – o se qualcuno dei giovani vuole proprio insistere a voler giocare, la palla non gliene faranno toccare.
    Ed allora, i c.d. “ragazzi” di oggi, come faranno a crescere ed a migliorarsi?

  17. dott. alessandro govoni scrive:
    Scritto il 26-8-2010 alle ore 10:18

    Convengo con la Sig.ra Francesca che chi non ha voglia di lavorare possa essere lasciato a casa. Qunindi la Magistratura deve rimboccarsi le maniche e cercare di capire se il dipendente timbrato come “fannullone” viene lasciato a casa perchè la fabbirica vuole delocalizzare all’estero o perche è invece è veramente un fannullone ed AL SUO POSTO VERRA’ ASSUNTO un altro con la voglia di lavorare.
    La Magistratura dovrebbe quindi INIZIARE A LAVORARE PER LO STATO perchè piu produttività significa più produzione, quindi piu’ occupazione e quindi meno oneri sociali a carico dello Stato. Quei magistrati del lavoro che fanno rissumere i fannulloni dovrebbero iniziare quindi a lavorare per lo Stato CHE LI PAGA, DEVONO quindi lasciare da parte la demagogia ed imparare a non sputare nel piatto in cui mangiano tutti i mesi .

Scrivi il tuo commento!

  • 106/09, 231/01, ambiente, bonus manager, cambiamento climatico, ciclo di Deming, consulenza, crisi, D.Lgs. 81/08, Deming, DVR, evasione fiscale, finanziamenti statali, flusso, flusso continuo, flusso del valore, gestione, gestione aziendale, infortuni sul lavoro, kaizen, lean thinking, miglioramento continuo, modello organizzativo, OHSAS 18001, outsourcing, PDCA, perfezione, piano a lungo termine, problem solving, pull, reati e sanzioni, responsabilità amministrativa, riunione blogger postilla, sanità, sicurezza, soddisfazione clienti, sondaggio, spreco, SSN, supply chain, sviluppo delle persone, t-holding, UNI EN ISO 9001, UNI EN ISO 14001, valore
  • HOME |
  • FISCO |
  • DIRITTO |
  • LAVORO |
  • IMPRESA |
  • SICUREZZA |
  • AMBIENTE
  • Chi è postilla |
  • I blogger |
  • Blog Policy |
  • Diventa Blogger |
  • Chi siamo |
  • Contatti |
  • Privacy |
  • Note Legali |
  • Policy cookie |
  • Pubblicità
 X 

P.I. 10209790152

Postilla è promossa da: IpsoaIl FiscoCedamUtetIndicitalia